di Dino Buzzati
Regia di Andrea De Manincor
NOTE DI REGIA:
«UN CASO CLINICO»,
Versione teatrale della nota novella “Sette piani” contenuta in più di una raccolta del romanziere di origine veneta – è quanto di più distante ci possa essere dalla tradizione teatrale estiva, perché l’estate è stagione durante la quale sembrerebbe d’obbligo la risata frenetica, il ritmo intenso e discotecaro, un cocktail di felicità inetta e senza pensieri.
Possono tuttavia starsene tranquilli i nostri 25 spettatori, perché la risata ci sarà: stretta, fra i denti, umoristica, grottesca, ma ci sarà. Naturalmente in una vaga atmosfera di irrisolta inquietudine.
Il testo racconta la storia di un rapporto, quello fra un uomo e la malattia; ma ciò che interessa a Buzzati non è approfondire la gravità di tale rapporto o analizzare la sventura patologica del protagonista, quanto la relazione che si instaura fra paziente e il sistema che l’ha in cura.
Così assistiamo alla famosa “discesa agli inferi” di Giovanni Corte, borghese agiato, che avverte delle voci – un richiamo della fine? Una semplice allucinazione? – e che, spinto dalla famiglia, l’anziana madre, la figlia, la moglie stessa, entra in contatto con una struttura medica – privata, la clinica Beldì del professor Schroeder – che lo trattiene, praticamente condannandolo a subire l’angheria silenziosa, clinica, scientifica di un’emarginazione, di un confinamento dal piano più alto, il settimo, destinato alle affezioni leggere, fino al più infimo grado di considerazione, il primo piano, dove lentamente la vita sfuma verso la fine, appunto.
Il problema sostanziale posto dal testo è che al povero Giovanni Corte non viene detto di che malattia si tratti, da cosa sia affetto, quale patologia lo condanni, perché in realtà chi lo emargina è la struttura, sono i medici, che lo rimbambiscono di informazioni inutili a decifrare il suo reale stato. Corte dapprima si fida, poi si ribella, poi protesta, ma attorno il sistema che lo avvolge, lo avvinghia, gli è contro.
È su questa prospettiva che si fonda la nostra lettura di un testo, certo difficile, non consolatorio, ma pieno di stimoli di riflessione e di possibilità realizzative: partendo dalla considerazione che il teatro valga ancor oggi come palestra di pensiero, per un attimo dimenticandoci che l’estate sia solo e tutta “da bere”, ma che sia stagione della vita, vita che non si può dimenticare nella sua, letteralmente, tragicomica consistenza.